Secondo i dati del Ministero per le Politiche Agricole, l’acquacoltura in Italia comprende l’allevamento di 30 specie di pesci, molluschi e crostacei, ma effettivamente il 97% della produzione nazionale si basa su 5 specie: la trota (acque dolci), la spigola e l’orata (acque marine) e tra i molluschi, i mitili e le vongole veraci.
L’Italia, come la Spagna e la Francia, concentra la sua produzione soprattutto sulla molluschicoltura; è il principale paese produttore dell’Ue di vongole veraci (della specie Ruditapes philippinarum), con un 94,2% in volume e un 91,6% in valore.
La mia riflessione:
– La Moceniga Pesca s.s. ha lottato fin dalla pubblicazione dei decreti legislativi di orientamento del 2001 per rendere trasparente la commercializzazione di mitili e molluschi chiedendo l’applicazione del reddito agrario anche alle attività svolte sul demanio marittimo. E così è stato, tanto da aver visto aumentare il numero di partite iva con codice attività connesso alla molluschicoltura. Ma questo probabilmente ha infastidito coloro che preferivano commercializzare in nero i prodotti propri o quelli acquistati per altre vie.
Accertamenti, denunce, atti vandalici, clienti morosi, ricorsi fino al Consiglio di Stato (vinti), minacce…
L’allargamento degli ammortizzatori sociali e l’applicazione della contribuzione ex scau INPS agli addetti agli allevamenti se da una parte ha reso nuove garanzie ai lavoratori dall’altro ha aumentato i versamenti nelle casse dell’INPS. Molti non si sono adeguati, altri si.
La Relazione del MIPAF sull’acquacoltura è la seguente:
L’acquacoltura italiana è caratterizzata da una forte diversificazione produttiva che va dalle tradizionali tecniche estensive (lagune costiere, delta, valli, stagni) alle moderne produzioni intensive (bacini, vasche e gabbie in mare), oltre alla molluschicoltura. I segmenti delle produzioni alimentari acquatiche da allevamento maggiormente in sofferenza risultano quelli a forte capitalizzazione, quali gli impianti in gabbie o quelli in vasche. La sfida del settore riguarda quindi, in via principale, la capacità di offrire produzioni di qualità e di reggere alla competizione con altre produzioni mediterranee offerte sugli stessi mercati, oltre che puntare su metodiche di allevamento e produzioni ecologicamente sostenibili, in linea con le diverse Direttive Europee.
Tra le maggiori criticità del settore si possono individuare:
o la complessità e la non coerenza dell’apparato legislativo vigente di riferimento, soprattutto se esaminato nel rapporto verticale tra organismi centrali ed enti territoriali;
o le difficoltà procedurali dovute ad un limitato dialogo con le autorità amministrative e da una scarsa semplificazione della regolamentazione vigente in materia;
o le difficoltà di accesso al credito per le imprese – prevalentemente micro-imprese o imprese familiari – per la creazione di nuovi insediamenti come anche per l’ammodernamento degli impianti esistenti e, più in generale, per il potenziamento delle strutture logistiche a terra;
o l’assenza di una pianificazione spaziale delle aree marine e della conseguente individuazione di zone prioritarie per l’acquacoltura (AZA), secondo i principi dell’approccio ecosistemico, con l’indicazione di criteri ed indicatori appropriati, anche al fine di ottemperare agli impegni internazionali assunti dall’Italia;
o gli impatti potenziali sulle attività di acquacoltura delle diverse direttive europee (Direttiva quadro per la strategia marina, Direttiva quadro sulle acque) e della conformità con gli obiettivi conservazionisti delle aree Natura 2000;
o la ridotta diversificazione di specie allevate, anche a seguito di un ritardo segnato nelle innovazioni tecnologiche, in controtendenza a quanto fatto dall’Italia nelle fasi pionieristiche dell’acquacoltura marina mediterranea;
o l’assenza di politiche di marchio, di qualificazione del prodotto nazionale e di certificazione di standard di qualità, a tutela delle produzioni italiane ed europee;
o la necessità di sviluppare linee di mangimi di qualità e sostenibili (basso contenuto in proteine e olii di pesce);
o la necessità di sviluppare soluzioni tecnologiche e commerciali ancora più avanzate (vaccini, presidi terapeutici) per la diagnosi, la profilassi ed il trattamento dei pesci allevati;
o la necessità di aumentare gli investimenti nell’innovazione del prodotto anche per offrire prodotti mirati per fasce di consumatori.
Noto quindi delle incongruenze tra imprese agricole come la Moceniga Pesca che adottano un codice di condotta responsabile e in linea con le indicazioni comunitarie e nazionali e le “aggressioni” alle quali viene sottoposta periodicamente.
A nulla contano le certificazioni di qualità e tracciabilità, ambientali e sicurezza nei posti di lavoro.
In laguna continuano le pesche di frodo, la vendita di prodotto non certificato, e di quanti per risparmiare pochi centesimi preferiscono servire in tavola prodotto di dubbia provenienza di pescatori abusivi, che di notte invadono le aree adibite ad allevamento, piuttosto di acquistare in centri di depurazioni certificati e garantiti, senza conoscere se quelle aree sono idonee o meno alla raccolta dei molluschi, come accaduto qualche giorno fa che tutte le Lagune erano biologicamente ferme a causa di escherichiacoli eccessivi.
Eppure come abbiamo letto nelle indicazioni del MIPAF e della UE le cooperative e quindi i consorzi di cooperative hanno dei vantaggi che altre forse societarie non hanno: perché non si mette mano a questa disparità di trattamento che in primo luogo venne fuori proprio in Provincia di Rovigo con il regolamento pesca?
Il Consiglio di Stato con sentenza n. 2034 del 2005 dichiarò l’illegittimità del Regolamento Pesca Rovigo, su ricorso della Moceniga Pesca e che a tutt’oggi dopo 12 anni dalla sentenza la Provincia non ha ancora messo mano alle modifiche.